Ormai, sono diventati sette i film visti e qui finora taciuti. Il titolare è pieno di rimorsi, e data l’oggettiva impossibilità di parlarne separatamente, ne farà ora un riassuntino. Pillole. Meglio che niente. Perdonatelo.
La ricerca della felicità è un film onesto, senz’infamia, che potrebbe aver realizzato qualunque regista hollywoodiano medio. Ha il merito di suscitare qualche riflessione non banale: sull’America, sui suoi miti fondativi che si riversano nelle narrazioni che produce su se stessa, su chi queste narrazioni le costruisce non essendo americano (in ispecie, Muccino: che sia lui ad averlo diretto è elemento del tutto inavvertibile). E sulla morale ultima del mito dell’opportunità. Se ti fai il mazzo e lavori sodo, e sei bravo puoi arrivare dove vuoi, e risorgere dagli abissi. Ma se non sei bravo? E se il luogo dove vuoi arrivare è simbolizzato da una spider superlusso? Poi dice che uno si butta a sinistra.
Dreamgirls: l’inelegante metafora che mi sembra appropriata a questo film è di tipo erotico. Adocchi un splendida ragazza, che ti sembra il massimo del sex appeal. La inviti a casa a bere qualcosa. Tutto sembra promettere una notte pirotecnica. Dopo un quarto d’ora, ti è venuto il mal di testa. La tipa è prolissa, noiosa e un po’ stupida. Vorresti non averla mai conosciuta e il tuo testosterone si è dileguato. Allo stesso modo, l’inizio di questo musical ispirato all’epoca d’oro della Motown e della soul music è promettentissimo: musiche, coreografie, ambientazione sono magnifiche, e pensi che ti godrai un bello spettacolo. Poi il tracollo. Storia melensa, overdose di canzoni ai limiti del kitsch (non sul palco, ma nel vivo della storia, a sostituire dialoghi), e per i pedanti come me, quelle “suonate” filologicamente imprecise. Vorresti tirare qualcosa in testa all’insopportabile “rivelazione”, la cantante/attrice Jennifer Hudson, che urla e strepita e irrita per tutto il tempo. Peccato. Grande Eddie Murphy in un personaggio che è un mix tra Little Richard, Wilson Pickett e Marvin Gaye.
L’amore non va in vacanza. Io, confesserò, ho un debole per queste commediole sentimentali. Anche quando sono visibilmente bonsai rispetto ai venerati classici (ho un altarino in camera da letto con Cary Grant, Audrey Hepburn e Billy Wilder ai quali indirizzo un commosso saluto ogni momento in cui mi sento triste). Anche se Jude Law sta ai suddetti come Mazzocchetti a Caruso (Enrico), ha la faccia da pupazzetto e fa smorfie insopportabili in tutto il film per rendersi simpatico (senza riuscirci). Anche se la coscienza critica mi scuote e mi fa notare quanto tutto qui sia troppo perfetto, troppo leccato, le case che sembrano prese da AD, gli attori bellissimi, i personaggi più tristi e sfigati come minimo scrivono colonne sonore per film hollywoodiani o sono giornalisti in prestigiosi rotocalchi londinesi. E a Natale cade la neve fuori alla lindissima casetta di campagna dove tutti alla fine si amano, ballano e un bel fuoco è acceso nel caminetto. Ma forse mi piacciono proprio per questo. Esco dal cinema col cuore raddolcito, sorrido e sono contento. Poi fatico a ricordarmene dopo due giorni, ma non fa niente. Sarà l’ennesimo sintomo di decadenza senile.
La cena per farli conoscere. A me Pupi Avati, in genere, piace. Perché fa solitamente dei film graziosi (nel senso etimologico: che hanno grazia) ed intelligenti. Perché sa scegliere e valorizzare e dirigere gli attori. Perché in Italia è un outsider nel senso migliore del termine (come per certi versi Rubini), bravo ma fuori dai giri grossi, paludati, dei vecchi tromboni come dei giovani rampanti. Ciò premesso, questo in ispecie mi pare un film carino. Non un capolavoro, ma che ha tutte le qualità sopracitate. E tre attrici che sposerei -una qualsiasi delle tre, Inès, Vanessa o Violante, non sottilizzo-, brave e deliziose. E che ha persino una Francesca Neri (che di solito non suscita i miei entusiasmi), sorprendentemente brava.
Una Notte al museo non era uno dei film che avrei messo in cima alla mia lista. Mi è stato consigliato da un’amica fidata (è divertentissimo!.. Vacci!!). Per di più, come forse si sarà intuito, in questo periodo in cui le mie giornate sono ricolme di pesantezze, propendo per visioni leggere e divertenti. Ci sono andato. Non mi sono pentito. Se si riesce a vederlo con uno sguardo under 15, è quanto di meglio si possa desiderare per un sabato pomeriggio (popcorn e fanta obbligatori). Il bonus cinefilo è che tra gli attori ci sono Dick Van Dyke e Mickey Rooney. Al comparire di quest’ultimo nome sui titoli di testa, mormorio di stupore tra i miei amici (ma è ancora vivo?….). Al comparire sullo schermo di entrambi, brivido di commozione.
Letters from Iwo Jima non meriterebbe di essere inserito in questo centoncino frettoloso, insieme a compagni di post assolutamente non comparabili per dimensione. Ma tant’è. Non sarà il mio ridotto scriverne qui a ridurne la grandezza. E’ il capolavoro che mi attendevo. Mi sono perso Flags of our father per gli ineffabili misteri della distribuzione (almeno qui a Napoli, dove è sparito dalle sale dopo pochi giorni), quindi non posso fare comparazioni. Ma nulla cambierebbe, credo, nel giudizio. E’ un film che ha tutti gli attributi del classico, nel senso migliore del termine, senza l’inevitabile rischio di cristallizzazione che comporta, soprattutto avendo alle spalle un secolo di film di guerra, antimilitaristi, umanitari. E rientra senz’altro in questa categoria. Ma l’ha fatto Clint Eastwood. E l’ha sceneggiato Paul Haggis (quello di Million dollar baby, e il regista di Crash). Ed è un film che non lascia spazio a nulla che non sia essenza. Dalla fotografia livida, seppiata, piena di abbagli crepuscolari ed oscurità alle micro e macrostorie che racconta, tutte all’insegna, come al solito per Clint, della sconfitta e della dignità delle persone. Della follia della violenza e della sua inevitabilità. Sentimenti senza sentimentalismo. Epica senza retorica. Morale senza moralismo. La grandezza di Eastwood consiste anche in questi piccoli, fondamentali equilibri.
Scrivimi una canzone. Premessa: vedi sopra –L’amore non va in vacanza-. Discorso analogo, con un surplus di tipo generazionale. Chi ha la mia età non può non apprezzare tutto il cotè ironico-sentimentale sul pop degli anni ’80, di cui il personaggio interpretato da Hugh Grant è un reduce sfigato (una specie di Andrew Ridgeley, per chi si ricorda chi era). Il videoclip iniziale, filologicamente perfetto ed esilarante, vale da solo la visione del film. Chi come me coltiva il sentimentalismo pop, ama Hollywood, Londra, le canzonette Pop, la propria adolescenza perduta, è obbligato a vederlo, ed avrà sorrisi commossi per tutto il tempo. Anche se poi, esattamente come per l’altro film, avrà la precisa consapevolezza che non si tratta di un immortale classico. Probabilmente il suo ricordo non passerà la prova del bimestre. Ma sarà stata comunque una serata migliore di quella passata davanti a Porta a Porta.
Pensa che rimorsi ho io che di questi 7 film all’attivo ne ho solo uno. e solo perchè l’ho visto a roma che qua era già partito. Si tratta di Flags. Capisci la mia situazione: anche io ho perso l’altra metà del dittico, per i famosi misteri di distribuzione di cui sopra. Flags è un film magnifico, imponente,ma non chiassoso (si potrebbe andare aventi per parecchio con //aggettivo// ma non //contrario dell’aggettivo// perchè è questa a volte la misura di un equilibrio), che mette soggezione un po’come la figura stessa di Clint Eastwood; e, come il suo volto, il film sembra segnato dal tempo (il bianco e nero virato, la struttura a flash back preceduta dal primissimo piano di colui che ricorda) e dalla sofferenza (narrativa e produttiva, se vogliamo) ma a volte incredibilmente freddo. Perchè non lo so dire, mi risulta anche strano ammetterlo. c’è un lavoro imponente sul ricordo, a diversi livelli, e niente più di questo a volte ci rende vulnerabili davanti ad un racconto. eppure, nonostante questo, non ha mosso in me delle corde che speravo. scusa la prolissità. soprattutto cosi tardi…
Capisco quel che intendi. Il pudore, la misura, l’asciuttezza talvolta rischiano di prosciugare troppo, e di fare arrivare l’emozione eccessivamente raffreddata. E’ un rischio che si corre. Personalmente, non ho avvertito la cosa come tu la racconti, ma ho avuto la sensazione che il coinvolgimento emotivo che mi ha dato questo film non fosse esattamente lo stesso di altri precedenti capolavori di Clint. Questo non toglie il fatto che stiamo parlando, secondo me, di uno dei migliori film della stagione.
sul fatto che ci sia poco in giro che possa reggere un confronto ci sono pochi dubbi. mi sarebbe piaciuto vedere anche flags, in modo da poter apprezzare forse meglio il fatto che questo film è stato costruito, in toto, come un controcampo.
un film come “la ricerca della felicità” è pericoloso non solo perché esalta la corsa sfrenata verso il successo materiale, l’ambizione illimitata (perché poi non si potrebbe essere felici com un dignitoso lavoro a medio stipendio?), il delirio di onnipotenza (basta volerlo! basta crederci! oh la saggezza umile degli antichi greci nei confronti del Fato…), l’indifferenza (da qui al disprezzo il passo è breve) verso i perdenti (il posto a disposizione era solo uno, i pretendenti tanti. Bè, mi sono chiesta, se ci fossero stati DUE individui come il nostro eroe, che sarebbe successo? se la sarebbero giocata in singolar tenzone? e il perdente, che fa? e tutti gli altri? il principio di scarsità è il messaggio diabolico. Mors tua, vita mea ecc. Puah!…).
No. C’è anche il fatto che in questo film mancano completamente i rapporti umani, tranne quello col figlio. Il protagonista perde la moglie e non ha neanche uno strtaccio di amico, ma per lui non sembra essere un problema. E’ solo, completamente solo in un universo potenzialmente ostile, comunque indifferente, utilitarista (lo apprezzano solo per i soldi che può far guadagnare) e basato sulla sozza logica della concorrenza. Non c’è un’ombra di critica a tutto ciò. La ricerca della felicità significa banalmente ricerca del successo, del potere e di un portafogli stragonfio. Cosa poi se ne farà, il nostro eroe, a parte comprarsi la spider dei suoi sogni e mille altri giocattolini, non ci viene detto. Così come non verremo mai a sapere se questa benedetta felicità l’ha trovata, poi.
Sarà che, come sai, il tema della felicità in questo momento mi interessa molto…
Ad ogni modo, quando vedo questa robaccia che, sotto una confezione carina e accurata, nasconde questi regalini modellati su una mentalità americana che mi ripugna, mi si torcono le budella. Spero proprio che nessuno si faccia influenzare da questo subdolo film…
Io vedendolo ho sentito angoscia tutto il tempo, e la sento ancora quando ci ripenso.
Ondina
Ondina, anch’io ho delle perplessità sull’ambiguità morale del film di Muccino. E sono daccordissimo anche sulla stranezza del fatto che quest’uomo sia completamente privo di relazioni personali -lui, così “ricco” umanamente, così bravo, finisce a dormire nei cessi pubblici perchè non ha nessuno che lo può ospitare…- Non ne ho scritto per brevità e perchè, trattandosi di una storia ‘vera’, forse si poteva accettare in base alla ben nota inverosimilità della realtà.
Mi pare però che tu esageri un po’. Non credo che sia subdola robaccia, questo film. E’ un film superficiale e ambiguo. Ma gli homeless li mostra, non li omette. Certo, alla fine loro resteranno li a far la fila e l’eroe si comprerà la spider. E qui casca l’asino. Però, credo che scagliarsi a testa bassa sulla ‘mentalità americana che ripugna’ rischia di essere una posizione un po’ manichea. L’altra faccia c’è. Che si possa dare una speranza, che si possa suggerire a qualcuno -a tutti – che ce la si può fare, che ognuno possiede dei propri specifici talenti e qualità da utilizzare per affermarsi non mi pare un’idea regressiva nè necessariamente delirio di onnipotenza. Il problema è qual’è l’obiettivo. La felicità? Qui probabilmente diverge l’idea che ne abbiamo noi da quella del protagonista del film. Ma che ognuno ne possa avere una diversa mi sembra legittimo.
invece io ho visto solo (ieri) saturno contro, qui non citato, mentre la cena m’è rimasta sullo stomaco (non avendola vista quella sera con te). Saturno…c’erano ancora le fate, ma senza lo stesso sapore…e non posso nemmeno citarlo nel marketing blog del pastificio di cui ti ho parlato, perchè la pasta della scena a tavola e gli spahetti scotti che il protagonista cerca di mandare giù sono firmati Garofalo…
baci
ade
anch´io ho un blog que si chiama Cronopio en Argentina.
Saludos!!
chi dice che la ricerca della felicità nn è un filmbello???
è stupendo! perche parla di una storia vera di un uomo che ha sacrificato tutto solo per riuscire a far stare bene suo figlio!