26 Aprile 2025

Chi mi dirà se stai nel perduto
labirinto di fiumi secolari
del mio sangue, Israele?

Jorge Luis Borges

NoaMartedi scorso sono stato ad uno dei più bei concerti cui abbia assistito negli ultimi anni, ed è stato un evento abbastanza inaspettato. Si trattava di Noa, accompagnata dal Solis String Quartet e da Gil Dor. La scaletta consisteva esclusivamente in canzoni napoletane classiche.
L’aggettivo che mi sembra più adatto ad esprimere il succo di quel che ho ascoltato e visto è: emozionante. Sono stato, letteralmente, con gli occhi lucidi per tutto il tempo, ed è davvero cosa rara, oggi come oggi. Ogni diffidenza, ogni barriera critica razionale, ogni tentazione di snobismo sono venuti meno di fronte ad un piccolo miracolo artistico. Una (bravissima, lo sapevo già) cantante ed autrice che viene da Israele, che nasce come star pop nel mondo anglosassone e che, senza tema di smentita, è oggi la migliore, la più brava e genuina interprete di una tradizione che -formalmente- non le appartiene, ma che in realtà è riuscita a far sua ed a esprimere con una verità, un emozione ed un respiro che nessun’altra o altro interprete vivente, per quanto napoletano, si sogna.
La sua voce straordinaria è un mezzo, non un fine (è questa la differenza tra i virtuosi e gli artisti). Uno strumento per esprimere senso ed emozione. Così come gli arrangiamenti per chitarra e quartetto d’archi, perfetti, impeccabili. “Giusti” senza essere ovvi. Al di là di qualsiasi inutile disputa tra tradizione e contemporaneità. Intelligenti e discreti: esattamente ciò che serviva.

Noa, Solis String Quartet, Gil DorUn effetto collaterale, del tutto imprevisto, di questo concerto è stato anche una temporanea riconciliazione personale con questa Città, con la quale ho ormai da tempo un pessimo rapporto. Almeno per la durata dello spettacolo, ho avuto un senso di alleggerimento, di riconoscimento, di ritorno a casa. Potevo identificarmi in quel discorso sentimentale. Ed ho potuto farlo perchè un altro magnifico regalo di Noa è stato il portare il “sentimento napoletano” su un orizzonte evocativo allargato. Su uno scenario identitario non limitato ad un golfo, ma all’Europa intera, a quanto di ebraicamente cosmopolita -sorprendentemente- circola nel nostro sangue, nel mio, in quello di Noa e Gil, in quel “fiume del sangue” Borgesiano cui nessuno può illudersi di sfuggire, e in cui si può felicemente ritrovare un’identità allo stesso tempo specifica ed allargata. Sentivo Era de maggio e mi sembrava di stare allo stesso tempo a Napoli e a Parigi, oggi e un secolo fa, senza nessun contrasto. Ascoltavo la versione in ebraico di Lily Cangy (già abbastanza ironicamente cosmopolita di per sè: chi me piglia pè francesa, chi me piglia pè spagnola…) e mi sembrava di sentire Marlene Dietrich nella canzone di Lola dell’Angelo Azzurro. L’Europa. Orizzonti che si allargano. L’Europa, molto più che l’abusato Mediterraneo. L’Europa fecondata dalla diaspora, dal dolore e dall’arte di chi ci ha errato nei secoli ed ha contribuito a costruire il meglio della nostra cultura. Il mondo, lo sguardo e l’emozione davvero globali. L’esatto contrario del nazionalismo e dell’ignoranza strapaesana e camorrista.
Mi spiego meglio. Ed apro una parentesi.
Nel mio palazzo, tra le varie abitudini condominiali, c’è quella, diffusissima, di tenere al massimo volume lo stereo, con le finestre aperte. Quando più di un inquilino lo fa nello stesso momento, il frastuono caotico diventa una metafora di questa città, di questo quartiere “popolare”, dove le urla sono la prevalente forma di comunicazione tra le persone e il massimo volume delle canzoni un prolungamento ricreativo di quelle urla. E’ capitato che un sabato mattina, mentre stavo cercando di dormire un po’ di più, una voce in particolare, al solito fortissima, cantasse e Mario Merolami facesse fare strani, brutti sogni in dormiveglia. Era una voce, una musica un po’ diversa dai soliti neomelodici cui ormai ho fatto l’abitudine. Una musica enfatica, tutta fatta di punti esclamativi, di emozioni dichiarate, indicate con le frecce, scritte in grassetto e sottolineate. Di recitati, di strappati d’orchestra. Una voce davvero urlata, rotta platealmente dalla finzione del pianto o della rabbia. La quintessenza del cattivo gusto. Una sceneggiata. Era Mario Merola. Nello svegliarmi disturbato e scosso, ho avuto una piccola illuminazione: quella voce, quella musica non esprimevano alcuna interiorità. L’esatto contrario di ciò che pretendevano essere. Finzione kitsch spacciata per sentimento. Pura superfice. E, mi sono reso conto, ancora una volta una potente metafora.

L’universo umano camorrista (uso una grezza semplificazione per intendere il tessuto socioculturale più degradato di Napoli, quello in cui mi trovo a vivere) è quanto di più locale e diffidente verso la scoperta del mondo esista. Del mondo esterno come del mondo interiore. Certo, sa viverci e muoversi, nel mondo, per fare i propri interessi. Ma ha con esso, coi luoghi, con la tecnologia, un rapporto di rapina. Se ne serve, si serve degli strumenti che la modernità gli offre, lo gira, il mondo, se è il caso, ma poi ritorna quasi sempre nel proprio microcosmo metaforicamente o realmente blindato, spesso oscuro e meschino, l’unico luogo in cui si sente sicuro, tra una frittura di pesce e il letto a baldacchino. Le sue radici sono tutt’uno con il ferro che lo incatena. Non ha nessuna voglia di guardarsi dentro, di affrontare la complessità interiore. Scoprirla gli farebbe orrore. Ha bisogno di rappresentarsi animato da sentimenti elementari e rassicuranti, che non lo mettano in contatto con l’anima, non lo contaminino col perturbante fluire della complessità emotiva nell’universo che sta oltre i confini del proprio quartiere e del proprio stomaco, ma che anzi lo facciano sentire sempre più chiuso e protetto nel suo recinto originario, iperlocale. Che poi i sentimenti e i temi di facciata, nelle canzoni più recenti, cambino, includano il sesso, la discoteca, la macchina, il cellulare, e dinamiche di coppia più “moderne”, è solo apparenza. Non esiste alcuna reale aspirazione evolutiva, conoscitiva. Il modello umano è rimasto sostanzialmente invariato, e così il senso del proprio destino. Qui sei nato e qui morirai. Magari sparato in faccia.

Quando qualcuno dice o scrive, di questi tempi, la frase c’è un’altra Napoli istintivamente diffido. Penso che questo concetto rischi, anche in buona fede, di essere un modo per tirarsi fuori dalle responsabilità, per lenire un dolore intollerabile concentrandosi su qualcos’altro nel tentativo di ignorarlo. Ma forse ora capisco che c’è un modo giusto per dirla, quella frase. Che fa in modo che possa pronunciarla anch’io. Oltre la cronaca e la sociologia, l’altra Napoli, quella che c’è sempre stata, è quella che va alla scoperta del mondo e se ne ciba, che si contamina dell’umanità e la contamina, che sa guardare nelle proprie profondità e sa che le radici possono diventare più salde quando si lasciano alle spalle. La Napoli Ebrea.

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