Questo è il racconto che è stato finalista al Premio Loria 2006. Ora è incluso anche nella raccolta uscita per le edizioni APM.
C’è un gran fiorire di resurrezioni, ultimamente in giro. Succede che la gente a un certo momento muore, spegnendosi serenamente, circondata dall’affetto dei suoi cari che affranti lo annunciano a tipografi e a sportelli necrologici, e fin qui tutto normale. I morti se ne stanno buoni a letto per un po’, tra i pianti e le parole sottovoce, il volteggiare di tazzine di caffè, i primi cauti pensieri sulle procedure d’eredità, i calcoli, le strategie d’azione che cominciano a costruire nella penombra le basi per i futuri conflitti familiari. Si scelgono legni e rifiniture, si apre alla porta, si risponde al telefono, il portone è mezzo chiuso e ci siamo scordati di avvertire Zia Titina quando sul più bello, quando sta per arrivare la cassa, una voce remota e fin troppo familiare dice di aspettare un momento, che si erano tutti sbagliati, e al diavolo le banche, i fioristi e Zia Titina, e per il momento continueranno a volersi tutti bene, mentre un disturbo neurovegetativo li lambisce ad uno ad uno lasciandogli una debolezza alle ginocchia. Il moto delle tazzine di caffè, come per un arcano fenomeno gravitazionale, cambia drasticamente figura ed intensità. Dapprima soggiace ad un arresto repentino, congelandosi davanti a bocche semiaperte o sotto caffettiere immobili che le riempiono fino a farle traboccare, poi abbraccia il caos entropico delle cadute e frantumazioni sul pavimento, dei lanci a seguito di scottatura e degli acrobatici recuperi volanti, infine riprende orbite regolari ma più veloci e quasi frenetiche, molte delle quali convergono in direzione della ex buonanima, che peraltro di un caffè sembra proprio avere bisogno, o forse proprio no, chissà.
Altrove in città, da lunghi cassetti scorrevoli si levano sonori brividi di freddo, invocazioni di coperte e di grappini, tentativi di fuoriuscita a spinta, mentre il personale fugge verso la strada ululando ed inciampando. Sotto gli altari delle chiese bare di mogano si agitano, sussultano e cascano giù dai catafalchi infiorati, facendo stragi di camelie e tulipani e nastri con cognomi e nomi e inconsolabili aggettivi. Al prete casca di mano l’ostia benedetta, a molti casca la mascella, la pressione arteriosa ad alcuni sale, ad altri scende: è tutto un gioco di salite e discese, di cose che cadono e risorgono.
Insomma, questa storia ha preso piede fin troppo. Non si sa cosa pensare. Eppure era cominciata molto discretamente, poco alla volta: casi di morte apparente, si diceva, solo un po’ più frequenti della media statistica. E’ tutto normale, c’è una vasta letteratura sull’argomento, (e qui, quando si dice letteratura, c’è da chiedersi di che cosa si stia parlando). Per di più, in qualche caso il consuntivo finale, per così dire, andava comunque in direzione dei processi naturali: una sorta di algebra funeraria confermava la regola della morte a dispetto della eccezione. Il compianto padre e marito si presentava verticale alla propria porta di casa poco dopo esserne uscito orizzontale e freddino, provocando il decesso immediato (e in questo caso definitivo) di moglie e figlia in gramaglie. Due a uno.
In ogni caso, il fenomeno ha cominciato a diffondersi con una velocità tale che, oltre a rappresentare un problema scientifico, filosofico, teologico, psicologico e quant’altro, inizia ad avere delle serie ricadute sociali: i morti irreversibili sono sempre più rari, e una tremenda inquietudine si è diffusa in tutto il vario indotto del settore: trasportatori, inumatori, allestitori, imbalsamatori, fioristi, preti, addetti ai forni, marmisti, tipografi, poeti decadenti e via dicendo, tutti tremano per la loro sorte, vedono nel loro futuro solo incertezza, non sanno letteralmente a che santo votarsi. C’è chi ipotizza riconversioni professionali, chi pensa al prepensionamento, chi invoca misure di tutela (cassa integrazione sarebbe un termine forse appropriato ma di dubbio gusto). La disperazione induce anche a gesti estremi: un necroforo deamicisiano, con la famiglia ormai alla fame, non ha esitato ad immolarsi personalmente. Volendo procurare almeno un lavoro alla propria impresa ridotta al fallimento, si è sparato un colpo in testa – metodo che sembrava efficace e definitivo -. Purtroppo però la sfortuna gli si è accanita contro: non è morto. In compenso, è rimasto paralitico e ha così potuto usufruire di una piccola pensione e di una carrozzetta fornitagli dalla ASL.
Ma c’è un aspetto di tutta questa vicenda che è davvero inquietante, oltrechè molesto: la mania di protagonismo che assale gli ex morti. Passino le interviste agli esperti, ai medici, ai preti, agli psicologi, agli psicopompi quando reperibili. E’ giusto che ognuno dica la sua. Del resto sono pagati per farlo. Ma i risorti, cosa non s’inventerebbero per rimanere davanti a una telecamera. Certo, tutti vogliono sapere da loro dove sono stati, cos’hanno visto, com’è l’altro mondo, se un altro mondo è possibile – appassionate polemiche politiche infuriano su quest’ultimo argomento – Ma loro esagerano: sempre a raccontare storie eccessive e sospette, con obliqui sorrisetti che non la contano giusta. I tunnel con la luce in fondo sono ormai roba vecchia e sorpassata, lo sanno anche i bambini. Quindi si deve alzare il tiro. E via allora con gli ìnferi psichedelici dove ci sono diavoli in marsina che sotto luci stroboscopiche ti chiedono per chi hai votato con aria minacciosa, oppure orchestre celestiali di anime afrocubane che sopra nuvolette candide suonano mambi e rumbe. Appena c’e un break, tutti si fermano a tempo, il caporchestra lancia il suo “UH!”, e il morto si risveglia.
E poi, che mitomani narcisi questi risorti, concentrati solo sulla loro vita o sulla loro morte: ce n’è uno che sostiene di aver sognato, quando era defunto, sé stesso che si dava dei numeri da giocare al lotto. Gli sfuggiva il dettaglio che, essendo morto, gli sarebbe stato difficile recarsi alla ricevitoria. Poi, quando invece è tornato vivo, quei numeri si è affrettato a giocarli. Ovviamente non ne ha preso uno: quei numeri, dedusse, erano fasulli come la sua morte. In realtà erano giusti, ma erano quelli della settimana prima. Essere sincroni, in questi casi, è impossibile per evidenti ragioni logiche.
Non sappiamo come andrà a finire questa storia. C’interroghiamo sul perché sul percome e sul che cosa succederà. Ma forse ci convince una tra le varie ipotesi che sono state fatte, semplice e logica: nell’aldilà hanno esaurito i posti. Non sanno più dove mettere le anime. E come succede sulla terra quando gli ospedali, dove possibile, rimandano i malati a casa per curarli a domicilio, senza gravare sulle strutture, allo stesso modo i Dirigenti Ultraterreni, che dovrebbero guarire dalla vita con le pene o le beatitudini eterne, nell’emergenza preferiscono somministrare una frazione di eternità direttamente a casa, fino al ristabilirsi della normalità. Ci sfugge la differenza tra questa condizione e la ordinaria finitezza quotidiana, e ci sfugge anche la comprensione del concetto di normalità nell’alto dei cieli. Ma d’altronde cosa siamo per pretendere di capire. Cosa siamo, cosa siamo.
Ma e’ un racconto tuo? Se si, complimenti!Possiedi un sense of humor davvero interessante.Non scontato.E lo scritto e’ intelligente.Fantastico quando parli dei “risorti mitomani”:”Ma loro esagerano: sempre a raccontare storie eccessive e sospette, con obliqui sorrisetti che non la contano giusta.”
Ahahaha!!
Mi sa proprio che ti linkero’ sul mio blog..
La risposta alla domanda è si…….
Per il resto, bontà tua. Grazie!
Caro signore,
c’è poco da fare lo spiritoso. Cosa ne vuole sapere Lei dell’al di qua — per lei al di là — su cui insinua maldicenza che noi non sappiamo più dove mettere i trapassati. Non è vero! Come potremmo noi — che siamo e non siamo — non provvedere con lo spazio che teniamo a disposizione — nuvole, pianeti, e tutte le immaginazioni degli uomini — a piazzare qualche miliarduccio di miliarduccio di esseri. Visto che Lei mi ha provocato, adesso Le dirò la verità. Ma devo fare qualche passo indietro. Le dirò innanzitutto che già da una decina di secoli il problema si presentava con forza. Nuovi venuti si differenziavano chiaramente gli uni dagli altri in maniera insopportabile. Intendo dire che la di loro maggior parte, cinesi, americani, danesi, giapponesi e insomma la maggior parte di tutti gli esseri della terra si differenziava da una ristretta, ristrettissima minoranza. Questa era letteralmente insopportabile, fino a creare scompensi, caos, conflitti, disordine, camorra e male parole. Capirà bene che essendo questo il Paradiso non era proprio il caso che diventasse — grazie a quella ristretta, ristrettissima minoranza — un Inferno. Questi venivano, e incominciavano a urlare — nel silenzio delle nostre stelle! — a gesticolare — nell’immobilità delle nostre rarefazioni! — a prevaricare imbrogliare cammurriare tanto che fummo costretti a fare una scelta. O noi o loro. E così fu che li rimandammo indietro. Dalle sue parole deduco con facilità che Lei è di quel popolo là. Ebbene, caro signore, sappiate che non vi vogliamo più e che da ora in poi dove piazzare i redivivi saranno fatti vostri. Createvi — e sarebbe ora! — un Paradiso dalle vostre parti e lasciateci in pace…
p.s.
Mi comunicano che anche i colleghi dell’Inferno e del Purgatorio hanno avuto gli stessi problemi e che anche loro vi stanno rimandando indietro le buonanime, o meglio, le cattivanime. Arrivederci.