26 Aprile 2025

“I Beach Boys? Sono quelli di A ba-ba-ba ba-babberén, giusto?”

Sono anni e anni che mi ritrovo a sentirmi dire cose di questo genere, ed ogni volta mi affretto a spiegare con fervore da evangelizzatore che si, sono anche quelli, ma soprattutto un’altra cosa molto meno popolare -soprattutto qui in Italia- e infinitamente più preziosa, e cioè quelli che dal ’66 in poi hanno rivoluzionato il pop, ispirato direttamente i Beatles di Sgt. Pepper, creato quel capolavoro assoluto che è Pet Sounds eccetera. Loro, o meglio lui: Brian Wilson, genio del songwriting al pari di Burt Bacharach e Pul McCartney, uomo infelice dalla vita tribolata, miracolosamente sopravvissuto a se stesso, alle droghe, alla malattia mentale, alla incomprensione dei suoi compagni di viaggio musicale, capace di essere stato dapprima l’artefice di quelle canzoncine rock perfette, tutta energia adolescenziale mare sole macchine e ragazze, e poi il creatore di struggenti elegie pop sulla perdita, la mancanza, l’inadeguatezza (in musica come nell’immaginario che i testi proponevano).

the-beach-boysGiovedì scorso i Beach Boys hanno suonato a Roma, in quello che era il loro tour dei 50 anni di attività, una reunion avvenuta dopo anni di divisioni, malumori e ostilità. E senza Carl e Dennis Wilson, che non sono più su questa terra. I restanti hanno circa settant’anni (la numerosa e ottima backing band mediamente la metà o meno). Io sono andato, of course, a vederli, non senza un certo timore. Ed ecco cosa ho visto.

Prima del concerto, uno sguardo sul pubblico mi rivela persone molto variegate per età, con parecchi giovani e giovanissimi. Qualche orribile tenuta surf indossata da attempati fricchettoni, si, ma nei limiti del tollerabile. L’atmosfera è allegra e rilassata. Qualcuno canticchia, guarda un po’, Barbra Ann, e sembra sia venuto fondamentalmente per sentire quello.

Il concerto comincia puntualissimo. Parte la batteria energetica di Do it again ed il pubblico -me compreso- esulta. Entrano sul palco i musicisti. Cerco Brian, eccolo, arriva. Pallido, con espressione tetra e malaticcia, si sistema ad un pianoforte sulla sinistra del palco. E mentre gli altri danno il via a un concerto tosto, divertente, energetico, lui resterà lì per due ore e un quarto a far poco o punto. Senza sorridere mai, o quasi. Una testimonianza vivente (fossi cattivo, come Flaiano direi piuttosto morente) del suo dramma -della sua vita-. Lui, l’artefice di tutto, delle stupide e felici canzoni surf, e dei capolavori pop d’avanguardia, lui che litigò con lo stolido Mike Love (cui non piaceva Pet Sounds, che disprezzava Smile, e che avrebbe cantato in eterno solo le canzoncine per rimorchiare adolescenti), lui senza il quale non ci sarebbe stato il 90% della migliore musica in circolazione fino ad oggi, stava lì, attonito, immobile, a far finta di suonare ed ad ascoltare il concerto dei suoi compagni, i Beach Boys, quelli di Surfin’ UsaI get around, di Fun fun fun Help me Rhonda. Quelli che il pubblico si aspettava  e (ri)conosceva.

brian wilsonIo ascoltavo e ballavo esaltato, come tutti, felice di sentirmi rock’n’roll, giovane(?) e stupido. E ogni tanto mi chiedevo: ma qualche canzone posteriore al ’65, no?…

E a un certo punto è arrivato questo momento più Brian, diciamo. God only knows, Wouldn’it be nice, Heroes and vilains…

Ma non funzionavano, non c’entravano con questo concerto. L’andamento delle canzoni, la loro natura composita e sofisticata sommata alla cattiva acustica spezzavano l’effetto panzer, e sembravano creare un calo di tensione. Brian poi quando canta (lo ha fatto, ogni tanto) mi fa venire attacchi d’ansia simili a quelli che mi provocava Modugno al suo ritorno sulle scene dopo l’ictus (ce la farà a mantenere l’intonazione? La voce si sta per rompere? Dio, no, ti prego). Poi, la parentesi si è chiusa. E  siamo arrivati canzone dopo canzone, riff dopo riff, coretto dopo coretto, al gran finale al fulmicotone, bis, pubblico in visibilio. I musicisti -tranne Brian- tutti felici e quasi sorpresi da tanto calore.

E’ tutta qui la storia di questo (bel) concerto, che ha messo in scena, per chi voleva e poteva vederlo, la duplicità (nel caso di Brian, tecnicamente e patologicamente la schizofrenia). Un concerto divertente, trascinante, animato da un gruppo di energici vegliardi simpatici e in forma (solo Mike Love, devo dirlo, resta piuttosto antipatico. Il suo look, l’ho finalmente capito, è identico a quello di un camorrista dei Quartieri Spagnoli, con quella camicia da fuori e il cappellino da baseball. Il suo gestire allusivo e legnoso, pure). Ho ballato, e con me il pubblico, quasi tutto il tempo. E mi sono ricordato del bellissimo concerto che vidi all’Olympia di Parigi nel 2004: Brian Wilson presents SMiLE. Un altro concerto, in tutti i sensi possibili.

Se qualcuno mi chiederà cosa ho visto giovedì scorso, gli rispondero senz’altro: I Beach Boys. Quelli di A ba-ba-ba ba-babberén, hai presente?

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