“Ti dà da pensare” diceva Marilyn-Zucchero Kandinsky a Jack Lemmon mentre rompeva il ghiaccio per la festa a sorpresa nel treno. Analoga pensosità (fatte le dovute differenze) mi prendeva all’uscita dal cinema dove avevo appena visto l’ultimo film di Woody Allen. Ma non lo dico ironicamente: per fortuna ogni tanto capita di vedere un film che ti costringe a pensare, a mettere insieme tasselli, a fare associazioni ed addirittura a tentare interpretazioni (!).
Butto là un paio di cose che mi ha suggerito questo film, bello, senza dubbio.
Innanzitutto, c’è l’ingombro mentale che ti dà il prepensiero che stai vedendo un’opera di un autore ben conosciuto, con un suo stile consolidatissimo fino al manierismo – nonostante le due o tre varianti che può assumere -, e che di questo film tutti dicono “non sembra un suo film”. Questo è vero e falso allo stesso tempo. La solita sobrietà quasi penitenziale, da cineclub, il voler essere europeo un po’ con la puzza sotto al naso (per tutti, i titoli di testa sempre uguali da vent’anni, con gli stessi caratteri bianchi sul nero, la musica d’epoca in sottofondo -questa volta invece di jazz, arie d’opera-), si accompagna qui a dei momenti di genuino, emozionante cinema-cinema, spettacolare, curato nei dettagli, nella fotografia, nella sceneggiatura serratissima. Nell’immagine memorabile che apre il film e diventerà il suo tema, la sua chiave -la pallina da tennis al ralenti sul nastro della rete, che ritorna alla fine in un’altra forma e decide la storia-. Ti sei scordato del regista e va tutto più che bene. Poi, ogni tanto lui si fa ricordare. E ti sembra che ci sia qualcosa di lievemente irrisolto. Ma, alla fine, te ne freghi.
Poi, la capacità che ha, come ogni vera opera d’arte, di sollevare riflessioni su questioni antiche come il mondo e la letteratura: il bene, il male, l’istinto, la ragione, la morte senza farti alzare il sopracciglio o sbadigliare.
Si è parlato molto di Hitchcock a proposito di questo film. Ma a me è venuto in mente soprattutto qualcuno che ha certamente a che fare con lui: Patricia Highsmith.
Il bene ed il male, l’omicidio per convenienza, il volersi conquistare e mantenere un posto nella elite sociale partendo dal basso, la vera o presunta la vocazione al male. Il protagonista somiglia in apparenza al talentuoso Mr. Ripley. E di talento si parla, contrapposto alla fortuna, nella frase pronunciata fuori campo all’inizio del film. E’ preferibile essere fortunati piuttosto che talentuosi, dice Chris. E’ tutto lì il problema. Ripley scopre una genuina vocazione al male, e la coltiva. Il privilegio sociale non rappresenta davvero il suo fine ultimo, ma piuttosto un mezzo, una posizione comoda per potere esercitare meglio e più al coperto il suo talento. Chris invece crede più alla fortuna che al talento. Ha rinunciato a coltivare il suo. Vuole una vita tranquilla ed agiata. La passione che lo coglie si trasforma un pericolo ingestibile, e quindi va eliminato. Il delitto è solo uno strumento di ritorno alla tranquillità. Una vigliaccheria, non certo un’espressione genuina: nè di talento, ne di passione, nè di genio. Mi sono chiesto quanto, tutti noi, gli somigliamo, e consumiamo dei piccoli delitti strumentali, ogni giorno contro noi stessi, con l’alibi della tranquillità .
Il conto:
Spesi: 7 euro
Valore effettivo: 8 euro
Bilancio: + 1